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“As President Kennedy said those who make peaceful revolutions impossible, make violent revolutions inevitable”.

Martin Luther King

Il movimento nero esploso con le lotte per i diritti civili nei primi anni Sessanta dimostro ben presto non solo di voler andare al di là degli iniziali obiettivi d’integrazione nel sistema, ma anche di avere la capacità d’ispirare e catalizzare altri movimenti antagonisti al potere, dalle “nazioni oppresse” agli studenti, dalle femministe ai gay.
La rabbia dei ghetti e delle grandi fabbriche, soprattutto nel Nord, si comunico al Movement e ne muto la sostanza: non più azioni extralegali e nonviolente per l’integrazione nella società americana, ma sollevazione spontanea e spesso armata contro lo Stato e i suoi simboli; dalla conflittualità urbana, che spesso raggiungeva livelli da guerra civile, emersero nuove organizzazioni con l’obiettivo di trasformare l’insurrezione spontanea in progetto politico rivoluzionario.
Quando la richiesta di Black Power si diffuse da un capo all’altro del Paese (e per molti militanti fu decisivo il messaggio dell’ultimo Malcolm X), il problema nero divenne la chiave di volta della politica interna americana, La paura di una destabilizzazione dell’intero assetto sociale produsse da un lato la “Grande Società” johnsoniana, con i suoi programmi di “Guerra alla Povertà”, e dall’altro una serie di pratiche brutali e repressive, culminate in un’autentica campagna di annientamento fisico di attivisti e militanti, parallelamente all’escalation militare in Vietnam.
Fu Nixon, a partire dal ’69, a tracciare la linea definitiva e sanguinosa tra dissenso accettabile e non: gli anni Settanta si aprono con il massacro degli studenti bianchi di Kent State, degli studenti neri di Jackson State e della Southern University di Baton Rouge, mentre il movimento dei detenuti neri viene represso con l’assassinio di George Jackson e l’eccidio di Attica (1971).
In questo contesto, dai profondi dissensi politici interni all’Sds nasce la Weathermen Underground Organization, che pone la necessità di combattere per una rivoluzione proletaria sostenendo i movimenti di liberazione a livello internazionale e portando attacchi armati ai centri del potere economicopolitico negli Stati Uniti. Il gruppo, formato da militanti caratterizzati da forti capacità organizzative, entrò in clandestinità e nel corso di sette anni portò a termine una ventina di attentati dinamitardi, senza provocare alcuna vittima civile né subire perdite o arresti.
Il dibattito interno alle formazioni rivoluzionarie clandestine attraversò l’intero movimento e portò a gravi dissensi, che nella maggior parte dei casi contribuirono al disgregarsi delle organizzazioni che avevano operato contro lo Stato nella prima metà degli anni Settanta. Inoltre, l’efficacia dei programmi Cointelpro, il vuoto politico da essi generato, le mutate condizioni socioeconomiche e le difficoltà (organizzative e di comunicazione) legate alla clandestinità furono tutti fattori che contribuirono al drastico allontanamento di queste formazioni dal movimento di massa.

NASCITA DEL RAFT

In questo quadro, nasce la Revolutionary Armed Task Force (RATF, un’alleanza strategica fra elementi clandestini, attivisti pubblici antimperialisti e appartenenti al Movimento di Liberazione Nero. A livello pubblico il Ratf operava attraverso un centro comunitario nel South Bronx (il Lincoln Detox Center), nato per contrastare il diffondersi devastante dell’eroina nella comunità nera. Sotto la guida di Mutulu Shakur, medico agopuntore e membro della Republic of New Afrika, il centro ottenne enormi successi, coinvolgendo un numero crescente di attivisti ed ex tossicodipendenti nell’organizzazione di progetti educativi, sulla scorta dell’esperienza dei programmi di sopravvivenza per la comunità gestiti dal Black Panther Party. Benché diversi militanti del Ratf agissero in clandestinità, la maggior parte dei suoi attivisti e leader erano impegnati nel riscatto del proletariato e sottoproletariato nero, prima nel Bronx e in un secondo tempo ad Harlem. In tal modo, l’organizzazione poté mantenere una dimensione pubblica.
Il Ratf contava tra le sue file elementi del Black Panther Party, del Black Liberation Army e del Provisional Government della Republic of New Afrika (Pg-Rna), sopravvissuti alle drammatiche esperienze del ’71-73. Questi militanti neri decisero di allearsi con i bianchi del Wuo e del Prairie Fire Organizing Committee (trasformatosi in seguito nella May 19th Communist Organization) per creare un’organizzazione rivoluzionaria che fosse in grado di rilanciare la lotta armata negli Stati Uniti. A loro avviso, a rendere fallimentari le esperienze precedenti erano state la mancanza di risorse economiche e materiali del Movimento di Liberazione Nero (fondi, veicoli, armi, case sicure, informazioni tattiche e, soprattutto, giovani autisti bianchi “insospettabili”) e l’assenza pressoché totale di una pratica conseguente da parte di altri gruppi antimperialisti fautori della lotta armata.
I dirigenti New Afrikan del Ratf sostenevano con convinzione il rilancio delle pratiche di guerriglia urbana, tendenza questa che caratterizzava una componente specifica – l’attuale New Afrikan People Organization – del Pg-Rna. Questi militanti criticavano duramente, tacciandola di riformismo, la decisione di Imari Obadele (presidente del Rna) di creare uno Stato nero nel Sud del Paese; inoltre consideravano ormai neutralizzati, in quanto rinchiusi in penitenziari di massima sicurezza con condanne lunghissime, i combattenti che si rifacevano al Bla-Cc (Black Liberation Army-Coordinating Committee: un tentativo operato a metà degli anni Settanta di creare una struttura di coordinamento tra le diverse unità clandestine). Il Ratf, in questo senso, non rappresentava semplicemente un’organizzazione rivoluzionaria “integrata”, bensì una precisa strategia politica tesa alla conquista dell’egemonia sul movimento di liberazione nero.
Il Ratf operò per circa un lustro portando a termine una serie di espropri e azioni armate contro i centri del potere politico-economico statunitense. Una delle sue vittorie più importanti fu quella del 2 novembre 1979, quando una cellula clandestina del Ratf liberò la militante del Black Liberation Army, Assata Shakur, da una prigione di massima sicurezza (Clinton Correctional Facility), senza spargimento di sangue. Tre giorni dopo, la folla radunatasi davanti al palazzo dell’Onu per rivendicare il riconoscimento dei diritti civili per la popolazione di colore sarebbe esplosa in manifestazioni di giubilo quando gli altoparlanti diffusero un messaggio di Assata Shakur dalla clandestinità.
I successi militari ottenuti dal Ratf sembravano confermare la correttezza dell’analisi politica operata dai suoi militanti: combinando elementi e capacità della sinistra antimperialista con le capacità militari dei combattenti del Bia, il Bla-Ratf sembrava aver trovato la via per ovviare alle mancanze e agli insuccessi delle prime cellule clandestine del Movimento di Liberazione Nero. Anche il governo statunitense sembro accreditare questa visione affermando che “l’integrazione di elementi bianchi aveva reso più potente il Bla”. Il commento di un funzionario del dipartimento di Stato al riguardo molto esplicito: “Agendo insieme sono una minaccia più grave di quanto potessimo immaginare”.

CONTRATTACCO DELLO STATO

Un mutamento drastico si ebbe all’indomani degli avvenimenti del 20 ottobre 1981, quando una cellula del Ratf venne intercettata mentre tentava d’espropriare un furgone portavalori nei pressi di West Nyack (Brink’s Case), New York. Nello scontro a fuoco che ne seguì, due guardie giurate restarono uccise e quattro membri del Ratf furono arrestati. L’avvenimento riempì le prime pagine dei giornali nazionali, in modo particolare dopo che si diffuse la notizia della cattura della famosa latitante Kathy Boudin, militante del Wuo in clandestinità da oltre dodici anni. Nel giro di poche ore il network clandestino di supporto e sostegno al Raft fu individuato e neutralizzato.
Come pedine di un domino, i combattenti del Ratf caddero, uno dopo l’altro, nelle mani della polizia e dell’Fbi. A poche ore dall’incidente, agenti federali fecero irruzione nelle “case sicure”, i centri di appoggio e sostegno del Ratf. Tutti coloro che avevano avuto contatti di qualsiasi genere con i membri dell’organizzazione furono fermati e interrogati dall’Fbi. Risulto subito evidente che il governo aveva molte più informazioni sul gruppo, incluse liste di numeri telefonici, nominativi di membri e simpatizzanti ecc., di quanto si pensasse.
L’offensiva dell’Fbi, a questo punto, sembrava essere finita in un vicolo cieco; in realtà, si trattava di una mossa strategica, destinata a preparare il terreno per una seconda ondata di arresti. Per circa quattro mesi, l’Fbi operò clandestinamente acquisendo informazioni preziose attraverso intercettazioni telefoniche e ambientali. Il 26 marzo 1982, l’Fbi fece irruzione nella sede del Baaana (Black Acupunture Advisory Association of North America): una struttura creata da Mutulu Shakur all’indomani dello sgombero del Lincoln Detox Center ad Harlem e nelle case di numerosi attivisti associati al gruppo, effettuando nuovi arresti. In questo periodo, gli attivisti pubblici del Ratf tentarono di organizzare una campagna per la difesa e la liberazione dei militanti arrestati, scoprendo la distanza tra la propria azione politico-militare e le condizioni di vita e di lotta all’interno della comunità nera. Inoltre, le rivelazioni di alcuni dissociati del Ratf (Tyrone Rison, Ema Rison, Peter Middleton, Solomon Brown e Yvonne Thomas) contribuirono a esacerbare le difficoltà. L’offensiva statale, le operazioni di controspionaggio clandestine condotte dall’Fbi e le dissociazioni portarono alla completa distruzione dell’organizzazione.
Alcuni membri della May 19th Communist Organization continuarono a operare, nonostante il totale isolamento. Come i loro alleati afroamericani, questi militanti furono individuati e arrestati tra la fine del 1984 e la prima metà dell’anno successivo: Susan Rosemberg e Tim Blunk nel New Jersey (novembre 1984), Marilyn Buck e Linda Evans a New York (maggio 1985), Alan Berkman ed Elizabeth Duke in Pennsylvania (25 maggio 1985). Gli aderenti al May 19th, attivisti pubblici di giorno che la notte vestivano i panni del guerrigliero urbano, erano ben conosciuti dall’apparato repressivo. Per esempio, Judy Clark prese spesso la parola nei dibattiti pubblici dell’organizzazione, venendo menzionata più volte per le sue eccezionali doti oratorie e organizzative sull’organo ufficiale del Pg-Rna, nel mentre partecipava agli espropri notturni: nessuna sorpresa perciò quando fu arrestata nell’incidente di Nyack.
L’Fbi approfitto di questa vicenda per colpire duramente le ultime espressioni di quel movimento rivoluzionario che aveva caratterizzato la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. Il Brink’s Case fu, insomma, il pretesto per un’operazione contro l’intero milieu antagonista, nella quale il Gran Giurì fu usato come strumento di repressione politica. Diversamente da ciò che accadeva in caso di convocazione da parte dell’Fbi, il rifiuto di collaborare con il Gran Giurì aveva per conseguenza l’incriminazione per vilipendio alla corte o per altro reato. Inoltre, le riduzioni di pena offerte agli attivisti che avessero collaborato, permettevano all’Fbi di procedere comunque a nuove incriminazioni, in quanto le dichiarazioni di ammittenza potevano essere utilizzate in un secondo tempo contro gli stessi che le avevano rilasciate. Questa strategia porto all’arresto di numerosi membri di organizzazioni antimperialiste accusati di essere “Sons of Brinks” (ovvero sostenitori anche materiali di esponenti del gruppo in clandestinità), alla perquisizione di sedi di organizzazioni militanti, alla distruzione e sgombero di centri comunitari. Con queste operazioni, il governo statunitense distrusse definitivamente il movimento armato negli Stati Uniti.

Una doverosa precisazione

Quella della May 19th Communist Organization è l’esperienza di lotta di un gruppo di giovani rivoluzionari bianchi, per io più provenienti dalla classe media, che continuarono a credere nella possibilità di una svolta rivoluzionaria negli Stati Uniti della seconda metà degli anni Settanta e dei primi Ottanta. L’esigenza di darne conto in queste pagine nasce dalla visione di The Weather Underground, documentario realizzato da Sam Green e Bill Siegel, nel 2002, sulla base di numerose fonti documentarie e immagini di repertorio. In questo film la storia del Wuo sembrerebbe concludersi allorché alcuni suoi noti dirigenti (Mark Rudd e Bernardine Dohrn), frustrati dalla mancanza di un’organizzazione di riferimento e dal protrarsi di una clandestinità ormai priva di prospettive, si consegnarono alla legge. Benché il lavoro di Green e Siegel sia nell’insieme apprezzabile, a noi e a quant’altri operano a sostegno dei detenuti rivoluzionari s’impone una maggiore precisione storica, nonché la denuncia circostanziata delle operazioni di terrorismo di Stato condotte da Fbi, Cia, Atf e intelligence militare. Illuminante è al riguardo la vicenda di Silvia Baraldini, detenuta da oltre vent’anni, prima negli Stati Uniti e poi ir Italia. Impegnata nel Ratf in attività sia pubbliche che clandestine (partecipo a espropri e alla liberazione di Assata Shakur già ricordata), la Baraldini sta ancora pagando la rivendicazione politica delle proprie azioni e il fermo rifiuto di fornire informazioni sui suoi compagni con una dura condanna, volta a scoraggiare chicchessia dall’ingaggiare la lotta rivoluzionaria.

VOCI DA “DENTRO”

Proponiamo di seguito alcuni brani tratti da testimonianze e interviste di militanti incarcerati, attraverso le quali intendiamo analizzare il background socio-politico di questi compagni.

“Essendo cresciuto in un sobborgo abitato dalla middle class bianca, – afferma David Gilbert, – dove educazione, assistenza sanitaria e sicurezza economica erano diritti garantiti a tutti, credevo fermamente nella democrazia e nelle pari opportunità di cui godrebbe ogni cittadino americano. Questo mito si sgretolo sotto i miei occhi nel 1960, avevo allora una quindicina d’anni, allorché la televisione mostro il sit-in di Greensboro, North Carolina. Il Movimento per i Diritti Civili, oltre a disvelare il razzismo e le profonde ineguaglianze del sistema sociale statunitense, accese grandi speranze nelle comunità di colore. All’incirca nello stesso periodo, iniziai a considerare criticamente le scelte di politica estera, molto lontane dalla difesa dei valori della democrazia in cui credevo. Chiari esempi di queste scelte erano offerti dal Guatemala e dall’Iran, due Paesi in cui la Cia aveva rovesciato governi legittimamente eletti e li aveva rimpiazzati con regimi repressivi per favorire la United Fruit, nel primo caso, e la Gulf Oil nel secondo. Quando iniziai a frequentare la Columbia University, ebbi modo di avvicinarmi alla realtà di Harlem, rimanendo impressionato dalla vitalità della cultura e dallo spirito di resistenza di un popolo che pure viveva in condizioni estremamente oppressive. Gli abitanti del ghetto con cui parlavo dimostravano di avere una visione del sistema politico-sociale statunitense molto più chiara di un qualsiasi professore della mia università. Queste esperienze condizionarono la mia evoluzione da una visione liberal di sostegno ai popoli oppressi a un’altra più radicale, secondo cui le popolazioni oppresse erano in grado di controllare e gestire le proprie comunità molto meglio di qualsiasi estraneo. E dovevano poterlo fare. Gli oppressi avevano da farsi padroni del proprio destino; l’autodeterminazione era l’unico modo per progredire nel cammino delle riforme sociali”.
L’escalation della guerra in Vietnam e la dura repressione sia del movimento nero sia della dissidenza interna contribuirono fortemente all’avvicinamento di questi giovani membri dell’Sds a posizioni rivoluzionarie, in un percorso che sfocio anche in vere e proprie azioni armate in solidarietà con le nazioni oppresse. Come ricorda Laura Whitehorn, “Negli anni Sessanta e nei primi Settanta le lotte di liberazione nazionale esplosero in tutto il mondo. Personalmente compresi che, per esser parte integrante di questo processo rivoluzionario, avrei dovuto entrare nel movimento clandestino armato. […] Credo che la nascita del Bpp e l’emergere di un movimento clandestino armato all’interno del movimento di liberazione nero furono fattori determinanti per la definizione della mia ideologia. Avevo sempre odiato ogni forma di razzismo, ma fino a quel momento mi ero sentita impotente; la nascita del Bia cambio questo stato di cose. La prospettiva dell’autodifesa armata e della guerriglia urbana nel movimento nero mi spinsero verso la scelta della lotta armata. Era evidente, allora come oggi, che il razzismo non sarebbe mai stato sconfitto senza la conquista del potere e che ciò non sarebbe mai avvenuto senza un’insurrezione armata”.
È ancora David Gilbert a individuare due passaggi che cambiarono il volto del movimento dissidente: “Tra il 1969 e il 1970, due eventi specifici c’indussero ad abbracciare la lotta armata. Il primo fu l’escalation di violenza nel Sud-Est asiatico nonostante le imponenti manifestazioni avutesi all’interno degli Stati Uniti; il secondo fu la serie di assassini di militanti e leader del movimento di liberazione nero, compiuti nell’ambito dei programmi di controspionaggio dell’Fbi (Cointelpro). Una quarantina di membri del Bpp furono assassinati e più di un migliaio di militanti incarcerati nel biennio ’68-69. Nello stesso periodo violenti scontri razziali provocarono un altissimo numero di vittime nei ghetti neri. Il Weathermen Underground Organization (Wuo) nacque dalla nostra volontà di elevare il livello della lotta in solidarietà con la popolazione vietnamita e con quella afroamericana. Credevamo che questa solidarietà, da realizzarsi attraverso pratiche militari, potesse creare le basi per la nascita di un movimento rivoluzionario bianco degno di questo nome”.
La nascita di un movimento rivoluzionario nel “ventre della bestia” e la creazione di “uno, due, tre, molti Vietnam” nel cuore dell’imperialismo furono gli obiettivi prioritar del Wuo e del Ratf. Le successive vicissitudini, con la sconfitta finale del movimento rivoluzionario negli Stati Uniti, rendono necessaria una riflessione profonda sugli errori strategici e politici allora commessi, per quanto ciò non debba concludere alla sottovalutazione delle vittorie ottenute.
Marilyn Buck e Laura Withehorn, nonostante la lunga detenzione, rivendicano ancor oggi fermamente le loro azioni e non sembrano avere alcun problema nell’ammettere gli errori di una generazione di attivisti giovane e impreparata all’ondata repressiva che la colpì. “Durante la nostra militanza nel Wuo e nel Ratf riuscimmo a mettere in luce come l’imperialismo statunitense fosse lo stadio più avanzato del capitalismo internazionale; e la nostra aperta denuncia delle forme d’oppressione all’interno degli Usa fu funzionale a una serie di alleanze con le popolazioni oppresse entro i nostri confini nazionali. Il sostegno alle ‘colonie interne’ (la nazione New Afrikan, la nazione dei nativi americani, la nazione messicana e quella portoricana) divenne uno dei punti centrali del nostro lavoro. […] I gruppi antimperialisti bianchi adottarono la medesima visione individuando una nazione dominante composta per lo più da bianchi, differenziata in classi e basata sulla supremazia bianca a favore della classe al potere. La nostra conquista più importante consistette proprio nell’individuare la supremazia bianca come sistema di potere istituzionale, in opposizione alla concezione corrente che considerava il razzismo come un risultato di idee e comportamenti sbagliati. Quest’analisi ci permise di affrontare la supremazia bianca a differenti livelli: conferenze, manifestazioni, campagne di solidarietà e azioni clandestine in favore dei movimenti di liberazione negli Usa e nei Paesi del Terzo Mondo. [.1 Nelle nostre attività abbiamo sempre sostenuto la lotta armata. Molti, forse troppi, gruppi di sinistra sostenevano le lotte di liberazione ma condannavano la loro strategia armata. Altri, invece, sostenevano le azioni armate condotte dai movimenti di liberazione nel Terzo Mondo, ma non accettavano l’utilizzo delle medesime pratiche da parte dei movimenti di liberazione nero, portoricano, nativo-americano o chicano. Per quanto ci riguardava, non solo sostenevamo tali azioni ma le mettemmo concretamente in atto”.
Circa le dinamiche che portarono alla sconfitta di questa esperienza di lotta, Marilyn Buck sembra individuarne una “nella mancanza di chiarezza su determinate questioni come, per esempio, il significato di un assoggettamento politico alle scelte della leadership New Afrikan. L’assenza di una posizione definita da parte nostra rappresento sicuramente un errore. A volte assumevamo posizioni che erano oggetto di infervorate discussioni in quei movimenti per adattarle alle nostre finalità; altre volte, invece, intervenivamo in modo inappropriato nei dibattiti al loro interno. E corretto avere proprie posizioni sulle decisioni politico-strategiche dei movimenti di liberazione che si sostengono; altra cosa, pero, intervenire direttamente in queste loro decisioni. Cercavamo di sostenere il livello di scontro definito dalle nazioni oppresse in guerra contro le forze di occupazioni governative invece di creare un nostro percorso politico autonomo. Ciò particolarmente vero in materia di lotta armata: i movimenti di liberazione nazionali all’interno degli Usa erano alle prese con forze repressive affatto diverse da quelle con cui si confrontavano le organizzazioni di sinistra. Il governo da sempre in guerra con le nazioni oppresse e ciò rende necessarie forme di resistenza e contrasto di pari livello. Nella dinamica della nostra organizzazione, per esempio, il livello dello scontro in atto fra lo Stato e le nazioni oppresse risulto decisivo. La mancanza di una vasta base di attivisti e sostenitori rappresento un elemento che contribuì a isolare la nostra organizzazione dal movimento. Benché agli eventi pubblici da noi promossi partecipassero molte persone, lo standard d’ammissione nell’organizzazione era talmente elevato da tenerne fuori un gran numero di potenziali attivisti. Al nostro interno, il cattivo utilizzo delle procedure di critica/autocritica e la rigida disciplina indebolirono invece che potenziare la militanza. […] Un’organizzazione rivoluzionaria dovrebbe ‘educare’ i propri membri diventando più potente nel processo. Il nostro approccio settario danneggio i rapporti con gli altri gruppi e la nostra stessa attività. Nella nostra linea politica non riuscimmo a conciliare l’attenzione verso le contraddizioni tra imperialismo e nazioni oppresse con quella verso le contraddizioni interne al sistema statunitense, senza sviluppare mai a fondo un’analisi di classe né portare avanti alcuna pratica militante nelle fabbriche. Ritenendo impraticabile ogni percorso di lotta riformista all’interno di questo sistema, non riuscimmo a rapportarci con la conflittualità operaia. Giù conferì un senso di transitorietà a molto del nostro lavoro e un carattere pseudo-borghese alla nostra formazione. La nostra linea fu pesantemente inficiata da una serie di errori, così come la definizione di una pratica femminista coerente con la situazione politica dei primi anni Ottanta. Il nostro gruppo era composto perlopiù da donne, in maggior parte lesbiche, che ricoprivamo ruoli di leadership e operavano clandestinamente come combattenti. L’apporto delle donne alla vittoria del movimento di liberazione vietnamita rappresento la nostra principale fonte d’ispirazione. Eravamo pero alquanto confuse su come far nostro il loro eroico esempio e adattano alla situazione statunitense. La nostra analisi femminista evidenziava l’impossibilità di una liberazione della donna senza la previa eliminazione dell’imperialismo e del sistema capitalista a favore di un modello collettivo, di una società socialista. […] Il nostro dibattito interno e, di conseguenza, le nostre scelte strategiche si focalizzarono sulla creazione di un’organizzazione rivoluzionaria clandestina. Questo orizzonte, da noi considerato una priorità assoluta, contribuì a indebolire e, in ultima istanza, a distruggere gli sforzi organizzativi e educativi degli attivisti pubblici. L’attenzione dei militanti dei gruppi clandestini s’incentro sulle pratiche di lotta armata invece che sulla definizione di una linea politica e sul potenziamento di un’infrastruttura di supporto. Nonostante il nostro obiettivo esplicito fosse la rivoluzione proletaria, creammo gruppi ristretti, praticamente impenetrabili, isolandoci sempre di più. Giù, insieme con errori di analisi sullo Stato e le forze repressive negli anni Ottanta, contribuì ai numerosi arresti e alla distruzione dell’organizzazione”.
I lunghi anni di reclusione non hanno minimamente incrinato la tensione ideale di Withehorn, Buck e Gilbert.
“Essere rinchiusa in una prigione, – dichiara Marilyn Buck, – non ha cambiato la mia analisi politica. La realtà di cosa sia e di come operi l’imperialismo rimane immutata, nonostante possano modificarsi le relazioni di un singolo individuo con il sistema. La prigione, semmai, esplicita le forme di sfruttamento, repressione e violenza potenziali vissute all’esterno. Nell’ultimo trentennio, le forze imperialiste, sostenute da forti interessi economici, sono riuscite a riconsolidarsi e a sviluppare pratiche molto aggressive. In questo processo, il guanto di velluto è stato definitivamente strappato per essere sostituito dal pugno di ferro. Le condizioni della classe lavoratrice in tutto il mondo non sono mai state così precarie, mentre alle prigioni s’affidano la gestione dei soggetti sociali non omologati e lo sfruttamento del lavoro coatto, trasformandole in un’istituzione in tutto e per tutto paragonabile allo schiavismo. Essere una prigioniera mi ricorda giorno dopo giorno quanto disumano, crudele e avido sia l’imperialismo. E io non sono mai stata tanto convinta come ora della mia posizione antimperialista”.
Secondo David Gilbert, “Le trasformazioni più evidenti avvenute negli ultimi quindici anni sono l’incremento continuo della polarizzazione sociale e la globalizzazione dell’economia mondiale; ma io vorrei focalizzare la mia riflessione sulla totale frammentazione degli oppressi. L’evoluzione tecnologica ha flessibilizzato le forme della produzione e reso pervasive quelle della comunicazione, contribuendo in maniera determinante alla frammentazione della classe operaia in piccoli gruppi e aggregati caratterizzati da stili culturali, lavori e/o modi di sopravvivenza molto differenziati tra loro. E…] Credo che il libro Night-Vision di Butch Lee e Red Rover [Vagabond Press, New York 1993] contribuisca a illuminare alcune fondamentali diversità tra gli anni Sessanta e oggi. La situazione odierna, in cui il proletariato e il. sottoproletari sprofondano nell’odio e nel conflitto reciproci, smentisce duramente la previsione marxista secondo la quale ii lavoro avrebbe unificato le condizioni di oppressione e creato le basi per pratiche di lotta comuni. Enormi sono i problemi creati dall’aggravarsi della frammentazione e della competizione all’interno del proletariato, così come dai conflitti religiosi e culturali. Abbiamo bisogno di un’analisi delle condizioni oggettive se vogliamo comprendere come raggiungere l’unità, creare alleanze strategiche tra gli oppressi e produrre le condizioni per il diffondersi di una coscienza rivoluzionaria”.
Laura Withehorn è forse più ottimista nel suo tentativo di cogliere i primi fermenti di un nuovo movimento: “Ho dovuto adattare la mia analisi politica alle mutate condizioni storiche e alle limitate possibilità del movimento d’oggigiorno. Giù che non è cambiata, però, è la mia convinzione che saremo in grado di sviluppare forme di opposizione e lotta vincenti, poiché non sono scomparse né le contraddizioni del capitalismo né le sofferenze da esso causate. Sono fermamente convinta che gli esseri umani non si assoggetteranno né si omologheranno a questa cultura mortifera. Non credo che i cambiamenti strutturali avvenuti a livello politico e sociale (come la disgregazione del blocco sovietico) segnino la fine di ogni movimento rivoluzionario. […] Oltre ai cambiamenti citati, è importante evidenziare anche le esperienze positive e incoraggianti che si sono sviluppate nell’ultimo decennio. Nelle aree più depresse del Sud degli Stati Uniti, per esempio, sono nate numerose organizzazioni gestite da donne, d’orientamento sia rivoluzionario che progressista, per tentare di combattere le piaghe che affliggono la comunità nera. Questi gruppi rappresentano l’infrastruttura organizzativa di un futuro movimento rivoluzionario. E questo è solo uno dei numerosi esempi di resistenza popolare che potrei citare. Sarà pure a un livello di scontro inferiore, ma la lotta continua”.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

AA.VV., Enemy of the State, Resistance in Brooklyn. New York 1999.
Ward Churchill, Jim Vander Wall, The Cointeipro Papers, South End Press, Boston 1990.
AA.VV., False Nationalism, False Internationalism, A Seeds Beneath the Snow Publication, Chicago 1985.
Brian Glick, War at Home, South End Press, Boston 1989.
Paolo Bertella Farnetti, I neri americani dopo il Black Power, in Senza illusioni. I neri negli Stati Uniti dagli anni Sessanta alla rivolta di Los Angeles, a cura di Bruno Cartosio, ShaKe, Milano 1995.
Intervista dell’Autore a Laura Withehorn, New York, settembre 1999.
Intervista telefonica dell’Autore a Marilyn Buck, New York, settembre 1999.
Conversazione dell’Autore con David Gilbert, carcere di massima sicurezza di Comstock, Stato di New York, dicembre 2000.