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Fondato a Oakland nell’ottobre del 1966, il partito delle Pantere Nere rappresentava l’avanguardia politica di un movimento rivoluzionario che intendeva cambiare le regole della protesta e della lotta nera. Con una base costituita da individui ai margini della società – poveri, tossici, alcolizzati, prostitute, disoccupati e criminali – i nuovi eredi del pensiero di Malcolm X offrirono all’America nera la possibilità di sfogare tutta la rabbia che il Movimento per i diritti civili non era stato in grado o non aveva voluto esprimere. Vestiti con uniformi, baschi e giacche di pelle nera, armati e con un atteggiamento di sfida aperta all’establishment, le pantere catturarono rapidamente l’immaginario popolare e i titoli dei maggiori media, diventando il simbolo dell’orgoglio nero e delle paure della classe media bianca.

Se l’immagine minacciosa delle Pantere richiamò l’attenzione dell’America bianca sulla nuova formazione di lotta nera, la grafica realizzata sulle pagine del giornale del partito, The Black Panther, da Emory Douglas contribuì a trascendere le circostanze stesse che le avevano prodotte per acquistare la forza e la suggestione del mito, diventando l’icona della lotta per un’intera fase della storia di un popolo, l’espressione stessa della radicalismo nero negli anni Sessanta e Settanta.

Douglas, Ministro della Cultura del partito, ebbe il compito di tradurre la propaganda politica in arte concepita per la comunità nera; i disegni, i fumetti, i fotomontaggi e i poster creati dalle Pantere Nere sintetizzavano in rappresentazioni semplici e di facile comprensione i complessi articoli d’analisi politica e internazionale che occupavano le pagine del giornale e che buona parte della comunità e dei membri stessi del partito stentavano a comprendere.

Emory Douglas aveva passato la sua infanzia tra esperienze di povertà nei ghetti neri di San Francisco e periodi di reclusione in istituti per minori. Nel 1964 iniziò a frequentare dei corsi di grafica presso il San Francisco State College ed entrò a far parte del Black Student Union attratto dal clima di contestazioni che attraversavano la seconda metà degli anni Sessanta. Lavorò con Amiri Baraka ed altri esponenti del nazionalismo culturale ma ben presto, come altri fratelli di strada, stufo della passività espressa dal Movimento per i Diritti Civili, fu attratto nelle fila delle Pantere.

Come ricorda lo stesso Douglass in un’intervista realizzata nel marzo 2005: Il mio primo coinvolgimento nel Movimento di Liberazione Nero fu nel Black Art Movement. All’epoca frequentavo il City College di San Francisco che era a sole 5 miglia dal San Francisco State, luogo dove andavo spesso ad ascoltare i discorsi di Kwame Tourè,  Stokeley Carmichael, Sonia Sanchez e di tutti i militanti invitati dall’università. Lavorai con Amiri Baraka, il cui nome era Leroy Jones all’epoca. Era stato invitato per un workshop teatrale della durata di sei mesi dove avrebbe messo in atto del teatro di strada. Feci per lui i poster e i volantini per i suoi spettacoli.

Fu proprio in quel periodo che alcuni compagni della San Francisco State, che avevano invitato Betty Shabbazz, la moglie di Malcolm X, mi chiesero di partecipare ad un incontro di preparazione all’evento. Dovevo realizzare solo il  poster ma durante l’incontro conobbi le altre  persone coinvolte: i responsabili della sicurezza e uno scrittore la cui lettera avrebbe dovuto incoraggiare la sorella Betty a venire a San Francisco senza timori per via del forte sostegno a suo favore. L’incontro si tenne nel luogo dove stava vivendo lo scrittore, Eldridge Cleaver, dove ci raggiunsero anche i responsabili della sicurezza, Huey Newton e Bobby Seale.

Nel momento in cui udì le parole di Huey capì subito di voler essere parte di quell’esperienza. In quegli anni, molti giovani neri come me stavano cercando la propria collocazione all’interno di un fervente movimento di protesta. Huey mi diede il suo indirizzo e numero di telefono e mi disse di andare da lui quando volevo. E così feci. Prendevo il pullman da San Francisco a Oakland per passare il tempo con quei fratelli e fare con loro le ronde in città. Era il gennaio del 1967 e il partito era stato creato qualche mese prima, nell’ottobre del 1966. Eravamo davvero in pochi all’epoca, le riunioni del partito avvenivano nella casa di Bobby, il nostro centro di comunicazione con il mondo esterno.

La venuta di Betty Shabbazz aveva dato alle Pantere, ancora sconosciute, un momento d’altissima visibilità, oltre a ciò, Huey e Bobby avevano incontrato per la prima volta di persona Eldridge Cleaver, l’autore di Soul on Ice. “Da quel momento, i due tentarono in ogni modo di fare entrare Eldridge nel Partito. Sebbene quest’ultimo fosse intrigato dalle idee delle Pantere Nere, era appena uscito di galera, ed era ancora in libertà vigilata e per questo piuttosto titubante. Una sera andai alla Black House, un centro culturale comunitario, dove Eldridge si era trasferito. Trovai solo Huey, Bobby e Eldridge che discutevano. Capì che parlavano di un giornale e di quello che Eldridge avrebbe potuto scriverci . Mi spiegarono che stavano pensando alla possibilità di realizzare un giornale del Partito. Dissi loro che ero interessato e che avevo molte opere da mostrargli. Mi conoscevano già come artista per il poster realizzato per la sorella Betty Shabbazz ma rimasero tutti colpiti dal mio corpus di lavori. Mi raccontarono di più sul progetto in questione e mi dissero che sarebbero stati felici se avessi accettato la responsabilità di dirigere il giornale. Così mi nominarono Ministro della Cultura e mi dissero che io sarei stato l’artista rivoluzionario del Partito delle Pantere Nere”.

Responsabile della pubblicazione de The Black Panther, sin dalle prime copertine del giornale è evidente come le opere di Emory Douglas abbiano trovato ispirazione nell’immersione totale dell’artista nelle esperienze di sofferenza  e di lotta della comunità Afro Americana. “L’arte rivoluzionaria, come il Partito, è patrimonio di tutta la comunità, offre al popolo un’immagine corretta della lotta così come l’ideologia rivoluzionaria permette l’interpretazione corretta dello scontro. L’arte rivoluzionaria nasce dal popolo e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza”. Le sue opere erano legate a doppio filo alla comunità e al partito, ripercorrendo le fasi dell’evoluzione politica dell’organizzazione attraverso le pagine del giornale: dall’autodifesa armata, all’identificazione del nemico nelle truppe d’occupazione (le forze di polizia locale) e al sostegno ai diversi programmi di sopravvivenza (colazioni gratuite, cliniche popolari, scuole della libertà etc.).

La comunità nera è sempre stata la sorgente della mia ispirazione nonché la profonda comprensione delle storture presenti nel sistema, garantita dalla discussione con i miei compagni. Volevo che la mia arte fosse di livello professionale come quella che facevo al San Francisco State ma nelle Pantere Nere ho imparato a fare il meglio che potevo con i mezzi a disposizione. Il continuo feedback da parte della mia gente e dei miei compagni era lo stimolo per continuare a creare opere di quel tipo.

Nelle sue opere così come nei suoi scritti, Douglas sottolineò la funzione educativa, formativa e preparatoria della sua arte: gli artisti devono “creare immagini che esaltino le azioni rivoluzionarie così da galvanizzare l’intera comunità nera e convincerla della necessità della distruzione del nemico”. L’arte di Emoury Douglas si sviluppò lungo due linee d’azione ben precise: da un lato, illustrare alla comunità le umilianti condizioni di vita dei neri in America incitandola alla lotta, dall’altro, costruire una sorta di mitologia delle azioni dei militanti, della loro dedizione incondizionata alla liberazione del proprio popolo.

Il poster Shoot to Kill – Spara per uccidere, ad esempio, occupa interamente l’ultima pagina del numero del 21 Novembre 1970 del Black Panther. L’immagine esalta uomini neri in armi che ammazzavano poliziotti bianchi e il sottotitolo recita: “Il Ministro della Cultura Emory Douglas insegna: Dobbiamo iniziare a produrre arte che spinga la nostra gente nelle strade con l’intento di uccidere i porci”. Le critiche non erano meno violente nei confronti dei rappresentanti neri: fece sensazione la “galleria dei leccapiedi” dove venivano rappresentati gli “Zio Tom”, i neri venduti al potere bianco; una rassegna che arrivò a includere non solo integrazionisti come Martin Luther King, ma anche personaggi rispettati tar i nazionalisti come, ad esempio, Floyd McKissici del CORE.

Le Pantere fecero un utilizzo strategico dell’immaginario collettivo, sfruttando ad arte la propria immagine così come il profondo potere evocativo delle opere realizzate da Douglas. I suoi poster riempivano i muri, i cancelli, le recinzioni, le cabine telefoniche, gli autobus, le stazioni di servizio, i negozi di parrucchiere, i saloni di bellezza, le lavanderie automatiche, i negozi di liquori, così come negli angoli dimenticati dei ghetti americani.

Il giornale era sostenuto soprattutto da tutti quei compagni che erano i primi a diffonderlo e venderlo nella comunità. Avevamo acquistato una stampante e con quella realizzavamo il giornale e un gran numero di poster. I compagni addetti alla vendita ne tappezzavano tutto il quartiere. Oltre a loro, c’erano anche i commercianti; la maggior parte vendeva il nostro giornale e tutti avevano i nostri poster esposti in vetrina. Per tutta la Fillmore c’erano poster del BPP, la comunità stessa era diventata come una galleria della nostra arte. La mia arte era esaltata nella comunità e servì come ispirazione alla radicalizzazione di migliaia di giovani neri”.

I disegni, i fumetti, i fotomontaggi i poster di Emory Douglas circolarono come esempio di arte rivoluzionaria in riviste e letteratura di movimento in tutto il mondo – “Grazie al Partito e ai contatti internazionali che aveva, partecipai a numerosi incontri sull’arte rivoluzionaria nel mondo, diffondendo ai quattro angoli del globo la mia arte ma rimanendo al tempo stesso influenzato da quella di altre esperienze rivoluzionarie e di lotta”; le sue caricature raffiguranti i porci (i poliziotti), i ritratti di donne nere armate pronte a difendersi con ogni mezzo necessario e i poster a sostegno del programma politico in dieci punti del partito servirono per smitizzare il potere dell’oppressore ed esorcizzarne gli abusi. Con mezzi tecnici che lasciavano a desiderare, con tempi sempre strettissimi grazie, però, ad una creatività strabiliante e visionaria e a trucchi grafici dettati da necessità, Douglas creò un’estetica della liberazione capace di operare come messaggio di propaganda iperbolico, destinato a infiammare il desiderio di rivalsa dei neri in America.

Possedevamo una stampante già vecchia all’epoca che richiedeva l’inserimento dei singoli fogli e qualcuno che supervisionasse l’intera operazione facendo ruotare a manovella l’ingranaggio. Anche per realizzare le mie opere imparai a sfruttare tutti i mezzi a disposizione, di volta in volta. La maggior parte delle volte utilizzavo inchiostro e pezzi di carta, altre volte ritagliavo immagini e creavo composizioni; poi li si doveva adattare e preparare per la stampa. Non avevo un metodo che seguivo scrupolosamente: operavo a seconda degli eventi, delle necessità ma, soprattutto dei mezzi a disposizione. Spesso utilizzavo textures o pattern preconfezionati su cui poi realizzavo le mie opere, fumetti o composizioni.

Punti fermi del The Black Panther nel corso degli anni furono gli interventi teorici di Newton e Cleaver, ministro dell’informazione, e i disegni di Emory Douglas, ministro della cultura e artista rivoluzionario, che caratterizzarono il giornale e avevano il compito di tradurre la propaganda politica del partito in disegni concepiti per la comunità del ghetto poco disposta a leggere. Le sue opere erano un messaggio destinato ad accendere ulteriormente il desiderio di rivalsa e lotta.

Il giornale crebbe con il crescere del Partito arrivando a vendere più di centomila copie la settimana e questo portò il governo a considerare il giornale come uno degli strumenti in mano al nemico da distruggere. Anche perché denunciavamo questa repressione crescente e organizzata, sebbene non sapessimo come si chiamava quel programma. La repressione fu dura e a distanza di molti anni sto realizzando la complessità di quel disegno. Avevamo molti amici, anche nelle istituzioni, che ci aiutavano ma mai avremmo pensato ad un’operazione tanto vasta e criminale.

L’arte di Emory Douglas rappresentò la scintilla che diede fuoco ai cocktail a base di molotov della protesta nera, il combustibile capace di dar fuoco agli animi dei militati radicali neri. La chiamata alle armi di Emory Douglas, realizzata attraverso un corpus di migliaia di disegni, fumetti e fotomontaggi, sopravvive nell’immaginario collettivo contemporaneo come una delle più potenti interpretazioni visive della lotta.

Come ha ricordato lo stesso Emory Douglas, sfogliando il suo album con i lavori più significativi del periodo, al termine della nostra intervista: “L’arte rivoluzionaria è uno strumento di liberazione”.