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Il seminterrato era completamente ricoperto di disegni dal pavimento al soffitto, da quelli realizzati con pennarelli argento e oro su plastica nera, ai dipinti dedicati a Brooke Shields ispirati alla campagna pubblicitaria dei jeans Calvin Klein. Tutti erano eccitati dalla presenza massiccia di tutte quelle opere, tutti proprio tutti dicevano: “Wow, ne voglio uno!”.

Il momento clou della serata giunse quando, d’un tratto, Andy Warhol e Tony Shafrazi (il mercante d’arte) entrarono nel seminterrato. Eravamo tutti sconvolti. A quel tempo Andy girava intorno al Mudd Club e doveva essersi reso conto che qualcosa di straordinario stava succedendo a downtown.

Dopo quella sera iniziò il vero corteggiamento nei confronti dell’artista underground. Andy lo invitò alla Factory per pranzo e Tony Shafrazi lo invitò a tenere un grossa mostra nella sua galleria a Mercer Street. Da quella sera come tutti sospettavano l’artista, il club e persino l’intero quartiere non sarebbero più stati gli stessi.

Il luogo: NYC, downtown Manhattan. L’anno: 1980. Il seminterrato: Club 57. L’artista che da quella sera sarebbe diventato una star indiscussa della scena artistica e dell’immaginario contemporaneo per il decennio a venire: Keith Haring.

Haring e la scena artistica di downtown Manhattan

Downtown Manhattan verso la fine degli anni settanta non era ciò che potremmo immaginare. Era un luogo che incuteva timore anche ai più coraggiosi e che soffriva delle conseguenze della ristrutturazione economica e dello spazio urbano che aveva caratterizzato l’America degli anni settanta. Come in molte aree depresse della città, la mancanza di servizi e opportunità lavorative veniva compensata da una vasta cultura criminale, dalla droga e inevitabilmente dalla violenza. Se uptown Manhattan era il posto dei ricchi – a quei tempi non avrebbero mai osato oltrepassare Hudson Street – downtown era fonte di ansie e di paure. Siccome negli anni settanta gli affitti a Soho, a Tribeca e nell’East Village erano molto bassi, la zona si trasformò rapidamente in un centro di attrazione per i creativi di ogni genere: musicisti, pittori, cineasti underground, giovani disegnatori di moda alternativi, poeti e performer.

Come ricorda Kim Hastreiter in È davvero buffo come è andata a finire:

In quei giorni, la cultura a downtown stava facendo davvero rumore. La gente stava uscendo dalle “scatole”. Artisti eccellenti facevano musica, musicisti giravano film underground, disegnatori di moda collaboravano con gli artisti per la realizzazione di vestiti. E il fulcro di questo scambio culturale aveva luogo la sera, nei club.

Molti incontri avvenivano nei club e nelle feste private”, spiega Michael Holman:

Al Canal Zone, per esempio, un loft di un amico che vi teneva regolarmente delle feste, incontrai Jean-Michel Basquiat e decidemmo di creare il nostro gruppo, Gray. Fu una festa molto importante, il primo momento in cui la cultura underground newyorchese incontrò l’hip hop. I club rappresentavano luoghi di incontro e aggregazione incredibili. Al Club 57 conobbi invece Keith Haring.

Tra i luoghi di aggregazione della NY underground di fine anni settanta, il Mudd Club viene spesso ricordato dalle parole dei protagonisti di quelle notti come un posto davvero fantastico. Frequentato ogni notte dai luminari di downtown – da Lou Reed, Betsey Johnson, John Lurie, Arto Linsday fino ai membri dei B52s Fred Schneider e Kate Pierson, a tutti i Lounge Lizard e al regista Amos Poe – il club vedeva nascere e formarsi progetti ed esperienze artistiche e culturali nel sodalizio tra artisti e forme espressive differenti. Era l’alba di una nuova scena underground. Le notti del Mudd Club si protraevano sino al mattino e “potevi sentire Debbie Harry dei Blondie improvvisare un rap alle due del mattino con la leggenda hip hop Afrika Bambaataa e Fab Five Freddy”.

Sempre in quegli anni un altro movimento, ancora più giovane, per lo più gay, stava prendendo corpo nell’East Village. Un gruppo di studenti d’arte molto underground aveva fondato un club esclusivo chiamato Club 57. Il locale si trovava in un seminterrato di una chiesa in St. Mark’s Place ed era una sorta di luogo di sperimentazione artistica per questi giovani studenti della scuola d’arte impegnati a dar vita alle loro produzioni, talvolta alquanto estreme, fatte di performance e acido lisergico.

È stato al Club 57 che ho incontrato per la prima volta Keith Haring”, ricorda ancora Kim Hastreiter:

La prima impressione è stata quella di un ragazzo piuttosto timido, ma poi mi sono innamorata di lui quando l’ho visto recitare un sera schiacciato comicamente dentro un grosso televisore rotto a cui era stato rimosso il vetro dello schermo. Sono certa che fosse in acido! E, mentre eseguiva la sua performance, qualcuno mi sussurrò che quello era l’artista che disegnava quei piccoli bambini con il gesso sui marciapiedi, nelle stazioni della metropolitana e sui pali del telefono a downtown, quegli stessi disegni che vedevamo praticamente ovunque in quel periodo. […] I bambini di Haring avevano cominciato a spuntare in metropolitana mentre in contemporanea un giovane artista molto bello di nome Jean-Michel (Basquiat) se ne andava in giro disegnando una piccola folla con la parola “samo” scritta sotto. “samo” e il “bambino” diventarono i nuovi simboli di downtown. Sotto la 14esima strada erano praticamente ovunque.

Ci racconta Michael Holman:

Keith stava diventando famoso per i suoi disegni in gesso sui cartelloni pubblicitari della metropolitana, stava diventando una sorta di folk hero alla stregua di Jean-Michel Basquiat con le sue tag samo. E Keith e Jean erano amici ma vi era anche una sorta di competizione tra loro, non solo a livello artistico. Per esempio Keith frequentava il Club 57, una scena per lo più gay e completamente fuori, assurda, mentre Jean frequentava il Mudd Club: una sorta di competizione tra la posse del Club 57 e quella del Mudd Club. Da un certo punto di vista consideravano Keith Haring come la Great White Hope bianca nella scena artistica.

Quando Andy Warhol (che si stava stancando della scena attorno allo Studio 54) fece la sua prima comparsa al Mudd Club e più tardi al Club 57, i presenti rimasero tutti sconvolti e reagirono in maniera scettica ma il genio di Warhol doveva aver intuito che qualcosa di straordinario stava succedendo a downtown. Warhol rimase positivamente impressionato e d’improvviso gente come Bianca Jagger e altri tipi dell’alta società iniziarono ad apparire sempre più frequentemente in quella zona spaventosa e degradata di Manhattan.

Haring e graffiti writing

Le strade e il paesaggio del quartiere erano vibranti di energie e di eclettismo, colme di persone dall’aspetto estremamente creativo che se ne stavano in giro ventiquattro ore al giorno, quelle strade erano nel frattempo diventate le tele per i pittori di ogni genere, specialmente per i graffitisti, ispirati da un fenomeno creativo parallelo che, nello stesso identico momento, stava avendo luogo in un’altra zona pericolosa della città, sopra la 125esima strada a Harlem e nel South Bronx.

Anche lì la cultura era in fermento, giovani neri e latini stavano creando suoni, forme espressive e danze completamente nuovi accompagnati da stili di vita altrettanto innovativi. Stava affiorando la nuova cultura urbana, l’hip hop. Ben presto uptown e downtown iniziarono a conoscersi, collaborare e fondersi. Lo stesso Keith Haring aveva un rapporto molto forte e stretto con i graffitisti uptown. Sebbene non fosse parte integrante della scena hip hop, era nella loro cerchia, era amico di molti dei più importanti esponenti e collaborava spesso con alcuni di loro come LA 2 (Angel Ortiz). Keith, infatti, si fece coinvolgere appieno sin dagli inizi nella scena hip hop ma era fondamentalmente diverso dagli artisti “wild style”.

Come ricorda Tony Shafrazi:

Portava occhiali dalla montatura spessa, che sovente venivano dipinti dal suo amico Kenny Scharf. Pieno di energia e dinamismo, era insolitamente flessibile, pimpante e atletico. Keith ha sempre avuto uno stile originale: scarpe da tennis bianche senza lacci, giubbotti di pelle letteralmente ricoperti da pezze e adesivi… insomma, tutti gli stili che oggi vengono comunemente associati alla cultura hip hop.

Dalla posizione privilegiata di manager dei NY City Breakers, di conoscitore appassionato della prima scena uptown e di amico personale di Jean-Michel Basquiat, Michael Holman ricorda invece come: “Né Keith né Jean fossero hip hop nel senso più ‘puro’ del termine. Keith era parte della Fun Gallery che aveva elementi hip hop in essa e se la spassava alle feste hip hop ma non era parte del movimento”.

Keith sembrò sfruttare l’intuizione dei giovani che dipingevano muri e treni uptown, così utilizzò il suo estro creativo per dipingere muri e cartelloni pubblicitari per far conoscere il proprio nome. La gente ha visto Keith lavorare in metropolitana. Ovunque andasse si portava dietro Tseng Kwong Chi, che lo fotografava mentre eseguiva quei famosi disegni, e in ciò vi era un elemento di performance che è da considerarsi molto importante.9 A differenza dei ragazzini che dipingevano le carrozze entrando nelle stazioni di notte, di soppiatto, quando nessuno poteva vederli, l’intenzione di Keith Haring era invece del tutto opposta: Keith voleva che le sue opere venissero realizzate in pubblico.

Questa dimensione pubblica dell’arte di Haring lo allontanò dai writer e gli permise di assumere un carattere quasi mitologico nella scena artistica del periodo. Haring riuscì a dare un nuovo significato e una nuova enfasi a quei muri e pannelli pubblicitari per strade e metropolitane di New York. Era evidente che Haring non stesse realizzando dipinti per metterli in mostra nelle gallerie d’arte poiché sin dagli esordi non si è dimostrato artista adatto a un luogo particolare, la sua arte doveva esser condivisa da persone di tutte le classi sociali nei più disparati momenti della giornata. L’arte di Haring come performance costante da condividere con un pubblico, qualsiasi pubblico, anche mainstream, come accadde in quella mostra al Club 57 del 1980