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Durante gli anni Settanta, attraverso il medium del cinema, personaggi quali John Shaft, Superfly e il mitico Bruce Lee entrarono prepotentemente nell’immaginario popolare influenzando moda, atteggiamenti e linguaggio della gioventù afro-americana. Con uno stile funky e multicolore, con un atteggiamento di aperta sfida all’establishment e con combattimenti acrobatici e spettacolari, questi personaggi diventarono rapidamente vere e proprie icone della cultura giovanile nera.
Il cinema Blaxploiatation – un termine inventato per definire quei film interpretati, realizzati e scritti da e per i neri statunitensi; un genere che aveva tra i suoi caratteri distintivi quello di definire un nuovo senso estetico fondato su un montaggio rapido, sull’importanza fondamentale della colonna sonora e su una sessualità e una violenza crude e manifeste – presentava per la prima volta dei protagonisti di colore capaci di lottare per i propri diritti e per la propria dignità senza necessariamente soccombere o morire nei minuti finali del film. Come sostiene Darius James, “Alla fine degli anni Sessanta, i principali studi cinematografici stavano perdendo tra i 15 e i 145 milioni di dollari l’anno. Hollywood era sull’orlo della bancarotta.
Mentre succedeva tutto questo c’era una piccola produzione pornografica (o così almeno credevano i sindacati) che ruotava intorno a Los Angeles, parzialmente finanziata da Bill Cosby, il comico del budino jello. Quello che ne uscì fu un film girato, montato e distribuito che incassò 10 milioni di dollari, una grossa somma per l’epoca. Quel film era Sweet, Sweetback Baadassss Song. Or Another Mother’s Come To Collect Some Dues, (Rated X By An All White Jury) diretto da Melville Van Peebles.
Fu allora che Hollywood si accorse che i neri spendevano davvero dei soldi per andare a vedere dei film”. “Come forse già sapete gli elementi base di un exploitation-movie sono il sesso, la violenza e l’azione: esplosioni, inseguimenti con macchine veloci, incidenti, lotte, sadismo, tette grosse. Si rivolgono al cosiddetto minimo comune denominatore, stimolano l’adrenalina delle masse e possono portare la mente ad aree non ortodosse di pensiero”.
Il cinema Blaxploitation si basa su produzioni a basso costo rivolte ad un mercato specifico, con il solo intento di fare divertire e far soldi.
Hollywood investì pesantemente nel genere creando un immaginario che a distanza di trent’anni esercita ancora un fascino enorme sulla cultura giovanile contemporanea.

In questo senso, se riflettiamo sulla produzione cinematografica di Quentin Tarantino – il cui ultimo lavoro, Kill Bill Vol.1, rappresenta un vero e proprio omaggio alla cultura orientale e alla figura del leggendario Bruce Lee – appare evidente come egli abbia costruito la propria carriera sfruttando la cultura popolare nera, e in particolare il gusto del sottoproletariato nero, formatosi in quegli anni per le strade delle inner cities statunitensi.
Il cinema Blaxploitation sembrava anticipare la profonda frattura sociale che avrebbe cambiato radicalmente il volto della comunità nera durante gli anni Settanta: la ristrutturazione economica, la distruzione dei legami comunitari e le trasformazioni dello spazio urbano ebbero un impatto devastante sulle fasce della popolazione e sulle comunità più povere.
Il giovane Tarantino, regista famoso per la sua predilezione per questo genere cinematografico, comprese la trasformazione in atto dai film proiettati nei cinema dei quartieri popolari, dove assorbì gli elementi caratterizzanti di questa cultura senza però coglierne la matrice politico/sociale.
Nei suoi film, infatti, Tarantino sembra rifiutare completamente il contenuto borghese dei film tradizionali alla ricerca di un approccio originale: i suoi film esaltano i piaceri e i vizi della cultura popolare, ma i personaggi che li popolano sembrano aver perduto il significato etico, politico e sociale che caratterizzavano invece gli eroi degli anni Settanta, dando loro una vita e uno spessore capaci di infiammare l’immaginario dei giovani di colore.
Nei film di Tarantino, infatti, la Blaxploitation rinasce come elemento postmoderno – un intrattenimento creato per giovani bianchi che, interiorizzate le forme di segregazione economica, politica e sociale della popolazione di colore, celebrano l’avidità e il narcisismo della tradizione popolare nera. Questo elemento peculiare dei lavori di Tarantino è evidenziato anche dall’utilizzo della parola “nigga”: termine storicamente carico di connotazioni razziali negative, reso popolare dalla cultura Hip Hop che lo ha trasformato in intercalare di utilizzo quotidiano. Tarantino ha favorito questa evoluzione con i suoi film: le sue produzioni dei primi anni Novanta sfruttano gli insulti razziali e i dialoghi surreali (si pensi a Reservoir Dogs, True Romance e Pulp Fiction) per affascinare gli spettatori; e non è una coincidenza che, in Pulp Fiction, Samuel L. Jackson impersoni l’involuzione dei protagonisti del cinema Blaxploitation classici: individui che si muovevano a loro agio nel sottomondo criminale pur rimanendo sempre politicamente schierati a favore del proprio popolo.
La passione di Tarantino per la Blaxplotation, come quella per le animazioni giapponesi e i film provenienti da Hong Kong, e il loro sfruttamento potrebbero essere considerati l’ennesimo tentativo di appropriazione e cooptazione di fenomeni culturali e di bisogni del sottoproletariato da parte delle multinazionali dell’intrattenimento con il solo intento di creare un mero prodotto di consumo.
Tarantino, però, rimpasta generi diversi e in Kill Bill Vol.1. possiamo osservare il chiaro tentativo di aggiornamento dei suoi riferimenti culturali e di creazione di nuovi stimoli e connotati estetici, un’operazione che ha portato necessariamente al rivoluzionamento dei generi stessi: un rivoluzionamento che appare però freddo, senz’anima.

Guardando l’ultimo film di Quentin Tarantino, appare subito evidente che il piacere e l’interessamento per il prodotto derivino più dal compiacimento nel cogliere tutte le citazioni che dalla violenza spettacolare e dalle fontane di sangue che caratterizzano il film. Esemplare in questo senso è la scena in cui Uma Thurman affronta la banda degli 88 Folli, che rimanda direttamente al famoso scontro in palestra di Dalla Cina con furore, esasperandone la violenza visiva, ma non sfiorandone nemmeno lontanamente il pathos: mentre nel film di Bruce Lee l’eroe combatte – sudando e soffrendo – prima a mani nude e poi con i nuchaku, rompendo le ossa agli sventurati, ma umanissimi e concreti avversari, nel film del regista americano Uma Thurman mozza braccia, gambe e teste con una spada evidentemente affilatissima, affettando apparentemente senza troppa fatica, ma con straordinaria profusione di sangue, decine e decine di nemici mascherati e dunque non identificabili come persone, ma come pure e semplici “figure” da fare a pezzi.
E che dire del sottofondo musicale, Don’t Let Me be Misunderstood dei Santa Esmeralda, che ci fa sorridere e pensare alla colonna sonora del film di Bruce Lee, un mix tra cori orientali e la musica in stile Ennio Morricone che accompagnava immancabilmente i film western degli stessi anni. Durante lo scontro finale nello spazio incantato del giardino zen della House of the Blue Leaves, invece, una musica flamenca accompagna il duello finale tra Black Mamba e O-Ren Ishii: una musica il cui ritmo sembra piuttosto rimandare alla danza dei samurai in Zatoichi di Takeshi Kitano.

Questa violenza, elemento intrinseco alla produzione tarantiniana, così popolare nella cultura giovanile statunitense, codificata e commercializzata dall’Hip Hop, trae le proprie radici dalle scene dei film di Kung Fu provenienti da Hong Kong.
Basati su rigide formule, quali quella di Shane e dei racconti popolari giapponesi, questi film raccontano le storie di umili giovani impegnati a vendicarsi di qualche misfatto subito dalla famiglia, dalla scuola o dalla comunità dalla quale provenivano, affrontando bande o clan malvagi. L’iniziale riluttanza dell’eroe a venir coinvolto in combattimenti è bilanciata dalla sua velocità e abilità nell’utilizzo delle arti marziali nel momento del confronto. Una volta conquistata la vendetta, eliminati tutti i nemici, i protagonisti vengono incoronati come eroi.

La popolarità di questi film durante gli anni settanta ha profondamente influenzato migliaia di giovani che portarono quelle evoluzioni impresse nelle loro menti per molti anni. Durante gli anni Settanta, “tutte le famiglie di colore avevano il poster di Martin Luther King nel salotto di casa, mentre nel seminterrato, dietro ai piatti e al mixer, c’era sempre una gigantografia di Bruce Lee, un eroe in cui tutti i giovani afro-americani potevano immedesimarsi” (Nelson Gorge, Hip Hop America). Bruce Lee rappresentava l’eroe Kung Fu per eccellenza e se i film Blaxploitation erano apprezzati per il gusto della violenza e per il piacere del vizio, i film provenienti dall’Asia fornivano esempi di comportamenti virtuosi offerti da eroi non bianchi.
Il senso di appartenenza a una medesima comunità di oppressi e, soprattutto, il sentimento liberatorio di rivalsa che provavano i giovani di colore “bevendosi” con gli occhi le avventure degli eroi orientali sono facilmente comprensibili se si ripensa a numerose scene dei suoi film come, ad esempio quella in cui – ancora una volta in Dalla Cina con furore – Chen, all’ingresso di un giardino pubblico, manda in frantumi con un calcio volante una targa sulla quale era scritto “Cani e Cinesi non sono ammessi”: una frase che certamente riportava alla mente della popolazione di colore il triste periodo della segregazione razziale. E chi non ricorda la famosa frase detta da Chen prima di sacrificarsi per i suoi compagni: “Ascoltami bene. In Cina ce ne sono migliaia come me!”(sempre in Dalla Cina con furore).
Per qualsiasi giovane afro-americano era assolutamente naturale identificarsi con Bruce Lee, un individuo di colore capace di sferrare colpi mortali contro gli oppressori del proprio popolo. Il fattore identificazione ha rappresentato senza ombra di dubbio l’elemento determinante nella nascita della leggenda di Bruce Lee, una vera e propria icona per la popolazione di colore.
In realtà, questa forte identificazione aveva anche radici di carattere differente dalla semplice fascinazione per la figura di un eroe degli schermi; i rapporti tra l’America nera e la Cina maoista erano stati molto intensi sin dai primi anni Sessanta. Mao Tse Tung in persona scrisse un messaggio a sostegno della popolazione afro-americana tre settimane prima della storica marcia su Washington del 1963: “Il malvagio sistema colonialista e imperialista” – scriveva il leader della rivoluzione culturale – “fonda le sue radici sulla vendita e lo sfruttamento del lavoro coatto dei neri e sarà sconfitto solo con la completa emancipazione della popolazione di colore”. I cinesi, oltre ad essere considerati parte integrante della popolazione di colore nel mondo, non avevano mai partecipato alla tratta degli schiavi, non rendendosi complici dell’olocausto nero.
Questi elementi avevano creato le basi per il dialogo e lo scambio di esperienze e lotte tra queste due culture tanto differenti.

I pionieri della cultura Hip Hop, come molti loro coetanei, furono profondamente influenzati dalla Blaxploitation e dai film provenienti dall’oriente; quale esempio sarebbe più azzeccato del mitico Grand Master Flash? Vi siete mai chiesti perchè Joseph Sadler abbia scelto proprio quel soprannome? Probabilmente per dimostrare il proprio rispetto ai grandi maestri orientali. E che possiamo dire dei Furious 5, i cinque MC che accompagnavano le performance ai piatti di Flash o delle crew di b-boys che seguendo il codice delle gang si sfidavano dandosi appuntamento in campi da gioco, angoli di strada o stazioni metropolitane? Questi giovani, armati di ampi cartoni o pezzi di linoleum, formavano cerchi rituali entro i quali due individui alla volta si sfidavano compiendo le loro performance finché non veniva eletto il vincitore. In questi rituali i giovani imitavano, stilizzandole, le famose mosse di Bruce Lee.
“Quando i b-boys iniziarono a scontrarsi imitando figure di calci volanti e facendo finire gli sfidanti al suolo” – ricorda Grand Master Flash – “in quel momento i ragazzi iniziarono a disporre i propri cappellini di traverso. Era come se dicessero ‘Non sto ballando con te, sto cercando di farti male'”.
Lo stesso Charlie Ahearn, regista del primo film sulla cultura Hip Hop, Wild Style (1982), qualche anno prima si era cimentato nella realizzazione di un film sullo stile di quelli provenienti da Honk Kong, affascinato dalle evoluzioni di giovani latini e neri che si esercitavano con Say it Loud, I’m Black and I’m Proud di James Brown. The Deadly Art of Survival – questo è il titolo del film – racconta la storia di un maestro di arti marziali, Nathan Ingram, molto popolare nel Lower East Side, che utilizza il Kung Fu come mezzo per trasmettere valori positivi ai suoi giovani allievi. Come in ogni singola sceneggiatura dei film di Bruce Lee, la scuola di Nathan è minacciata dalle pratiche dell’altra scuola presente nel quartiere, che utilizza invece le arti marziali come strumento per garantirsi il mercato dello spaccio di droga e i conseguenti guadagni. Il Bene, come da schema, sconfiggerà il male e sull’onda del successo ottenuto dai film di Bruce Lee The Deadly Art of Survival raccolse intorno a sé migliaia di giovani del South Bronx che affollarono i centri comunitari e gli spazi in cui fu presentato con tanto di performance da parte dei ragazzi della scuola. In anni più recenti, la passione per la cultura orientale è rintracciabile nelle liriche e nella filosofia dei Wu Tang Clan, com’è facilmente intuibile dal loro album d’esordio, Enter The Wu tang (36 Chamber), il cui titolo riprende il nome di un noto film di Kung Fu. L’interesse dei membri del gruppo per la cultura orientale è sicuramente più profonda della semplice passione per i film sulle arti marziali: appartenenti alla formazione religiosa dei 5 Percenters considerano l’uomo di colore asiatico come “la crema del mondo e il dio dell’universo”. Le credenze di questa formazione religiosa, nata da una scissione dalla Nation Of Islam, evidenzia un nuovo elemento di identificazione con l’oriente. E che c’entra la 36 Chamber? Con questo nome i Wu Tang Clan hanno chiamato il loro studio di registrazione a Staten Island – rinominata Shaolin Island – e, secondo GZA, l’utilizzo del termine ha un significato profondo: i nove membri della formazione affermano di appartenere a una setta segreta antichissima il cui obiettivo consiste per l’appunto nella ricerca della trentaseiesima stanza, la stanza della conoscenza dei segreti delle arti marziali. Di più non vi posso raccontare poiché sarebbe una violazione del loro codice. Citandoli testualmente: “Never teach the Wu Tang %*!$”.

La cultura popolare condiziona mode, atteggiamenti e linguaggio. Ora, però, le dinamiche sembrano inverse: la cultura Hip Hop influenza giovani in tutto il mondo adattandosi alle diverse condizioni politico-sociali degli ambienti in cui prolifera. E’ evidente, anche per quanto analizzato sin qui, che la cultura popolare rappresenta un elemento di enorme importanza per la comprensione delle dinamiche storiche, politiche e sociali di un popolo.
Sebbene superficiale e fortemente condizionata da elementi sia temporali che spaziali, è innegabile che lo studio e la comprensione della cultura popolare rivelino molto più di quanto si sia portati a credere.
Guardare un qualsiasi video Hip Hop, analizzare i testi di un album, comprendere l’immaginario popolare associato a questa cultura significa ripercorrere eventi storici, lotte politiche e tradizioni culturali proprie della popolazione afro-americana.