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“Viviamo in una società dominata dal suprematismo bianco, il cui linguaggio caratterizza la narrazione contemporanea…”, così il rapper/attivista Talib Kweli denuncia la maniera in cui i media mainstream hanno raccontato la ribellione di Ferguson dell’agosto 2014. Da una strada del sobborgo di Saint Louis, all’indomani dello scoppio dei disordini, il rapper risponde alle domande dell’inviato della CNN, Don Lemmon. La dura critica non piace proprio al reporter, che difende l’operato dell’emittente: “Non sono d’accordo con quanto affermi. Credo che la CNN abbia fatto un’ottima cronaca degli eventi. La gente della comunità si complimenta con noi per questi servizi, ringraziandoci per l’oggettività. Non credo che tutti i media debbano esser criticati allo stesso modo”. Kweli, volato in Missouri per sostenere le manifestazioni, ribatte immediatamente all’obiezione di Lemmon citando un articolo presente sul sito del network che parla di manifestanti pacifici “finché non sono iniziate a volare le bottiglie”. “Non è accaduto ciò”, continua Kweli, sottolineando altre inesattezze dell’articolo. Un indispettito Lemmon interrompe nuovamente il rapper – proverà poi a interromperlo a più riprese –  a quel punto Kweli reagisce: “L’intervista finisce qui se non mi posso esprimere. Lei mi continua a interrompere dicendo, però, di volermi lasciar parlare… Le sto raccontando come si sono svolti i fatti, per come li ho visti io. Mi lasci esprimere il mio pensiero, poi potrà intervenire. Di solito è così che vanno le conversazioni”. La determinazione di Talib Kweli nell’esprimere sia il proprio pensiero sia le ragioni dei manifestanti va considerata un’eccezione nella rappresentazione che i media mainstream hanno proposto di questi eventi e delle successive manifestazioni del movimento Black Lives Matter.

Dalla fine del Movimento dei Diritti Civili a oggi, le relazioni razziali in America sono innegabilmente migliorate. Grazie al varo di leggi come il Civil Rights Act (1964), Brown vs Board of Education (1954) e il Voting Rights Act (1965), nonché di alcuni programmi a favore delle minoranze etniche, la società statunitense è progredita rispetto ai giorni delle Jim Crow Laws e della segregazione legale. Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto da gran parte dei media, l’America è tutt’altro che una nazione post razziale; esistono ancora gravi disparità nelle percentuali di disoccupazione, incarcerazione e mortalità, nonché nella rappresentanza politica e mediatica; in pratica una vera e propria gerarchia razziale domina la società statunitense contemporanea. Citando un detto popolare, possiamo affermare che “se la legislazione sui diritti civili degli anni Sessanta ha cambiato il significato dell’essere nero in America, non ha modificato il privilegio dell’essere bianco”.

Il movimento di protesta denominato Black Lives Matter si è sviluppato in tutti gli Stati Uniti in risposta alle uccisioni di giovani di colore da parte della polizia. Benché le pratiche razziste della polizia non siano una novità nel panorama statunitense, queste morti hanno ricevuto una forte attenzione mediatica per il fatto d’essere state catturate in video da un passante ed essersi trasformate in filmati virali impossibili da ignorare. Queste proteste hanno avuto un ruolo di primo piano nel dibattito sulle relazioni di razza per tutto il 2014-15. Tuttavia, quando le manifestazioni si sono trasformate in rivolta, il dibattito si è spostato immediatamente dalle uccisioni ai disordini. I media americani, sempre affamati di sensazionalismo, si sono dedicati alla violenza delle proteste più che a quella della polizia, proponendo un modello di comunicazione che nega il tema razziale seguendo quattro linee guida: spettacolarizzazione dei disordini, criminalizzazione dei manifestanti, richiamo a un’immagine idealizzata di protesta “pacifica” ed elogio della polizia.

SPETTACOLARIZZAZIONE DELLE VIOLENZE

Sin dai primi comunicati stampa, articoli e trasmissioni sulle proteste, i principali media hanno prodotto una narrazione ispirata a un immaginario da zona di guerra. I titoli principali, creati ad arte per sensazionalizzare la violenza, ne ignorano sistematicamente le ragioni, non offrendo alcuna analisi del contesto politico-sociale, bensì solo una denuncia non circostanziata di una violenza diffusa. Per esempio, il giorno successivo la decisione del Gran Giurì di non incriminare l’agente responsabile della morte di Mike Brown, il telegiornale serale della CNN manda in onda un servizio intitolato, “Police Cruiser Torched in Ferguson”. Un titolo simile non rimanda in alcun modo alla decisione giudiziaria che ha originato quella rivolta, a meno di non aver seguito la cronaca puntuale dell’intera giornata. La scelta del mainstream di spettacolarizzare le proteste, denunciandone la violenza, senza fornire alcun tipo di informazione sulla realtà di Ferguson e sulla privazione dei diritti civili per coloro che vivono nelle comunità nere, mira a creare un immaginario violento, anziché far comprendere quegli atti come espressione della rabbia e della frustrazione causati da una marginalizzazione crescente. Focalizzarsi sulle violenze è stato lo stratagemma per negare la validità della protesta e “non disturbare” quella gerarchia a matrice razziale che è una delle basi fondanti degli Stati Uniti d’America.

CRIMINALIZZAZIONE DEI MANIFESTANTI

Come le caramelle Skittles utilizzate durante la campagna per Travyon Martin, anche in occasione della morte di Mike Brown, un simbolo ha contribuito a diffondere le ragioni della protesta: le mani alzate a significare il “gesto di resa” di Brown, accompagnate dallo slogan Hands Up, Don’t Shoot. Un simbolo potente di denuncia di una ingiustizia profonda che ha colpito l’immaginario popolare; una critica alle pratiche di contenimento razziste adottate dalle forze di polizia in tutti gli USA. Un simbolo di giustizia per i manifestanti, un simulacro da distruggere per i media mainstream che propongono una narrazione sugli eventi del 9 agosto 2014 tesa a negare il “gesto di resa” di Mike Brown, con l’obiettivo di screditare le proteste, che deriverebbero da una menzogna. Il titolo del servizio sull’omicidio della trasmissione Anderson Cooper 360 (CNN) è uno degli esempi più evidenti di quanto affermato. Mentre il conduttore descrive la vittima come un piccolo criminale, in primo piano compare il titolo, “Hands Up” Account Questioned. Il non detto di questa scelta lascia intendere che le proteste fossero sbagliate perché si basavano su uno slogan falso. La rappresentazione proposta da FOX News si muove lungo linee molto simili. Il conduttore di talk show Hannity afferma che lo slogan Hands Up, Don’t Shoot è di una falsità incredibile; ma va oltre affermando che Al Sharpton, Barack Obama ed Eric Holder dovessero scusarsi per esser stati degli agitatori. In aggiunta alla negazione delle ragioni della protesta, anche parte della leadership del Partito Democratico è coinvolta nelle accuse e chiamata a rendere conto ai commercianti il cui futuro era stato distrutto. In questo senso, la distruzione della proprietà privata è considerata più importante della perdita di una vita umana. Non c’è alcun tipo di preoccupazione per l’assassinio di un giovane nero disarmato poiché la priorità è il business, come recita l’ideologia capitalista americana. Oltre a ciò, diversi sono stati i tentativi di dipingere come criminali sia Mike Brown sia i manifestanti; e allora ecco un video in cui Mike sembrerebbe rubare alcuni sigari o un altro in cui alcuni manifestanti irrompono in un  negozio e lo incendiano. In questo modo, i media mainstream hanno cercato esplicitamente di associare proteste e criminalità offrendo al pubblico una rappresentazione totalmente negativa dei manifestanti.

UN NUOVO MOVIMENTO PER I DIRITTI CIVILI?

Il confronto tra Black Lives Matter e il Movimento per i Diritti Civili degli anni Cinquanta e Sessanta è stato proposto nel momento stesso in cui le proteste hanno guadagnato le prime pagine di giornali e telegiornali. Per certi aspetti quel confronto è stato positivo poiché ha evidenziato quanto la gerarchia razziale sia ancora attiva negli Stati Uniti. Tuttavia, alla luce della rappresentazione mediatica delle proteste, quel confronto si è trasformato ben presto in una critica ai disordini a favore delle scelte di nonviolenza fatte dai leader di quel movimento e considerate lo standard al quale tutte le proteste dovrebbero adeguarsi per esser considerate lecite. In particolare, con titoli e articoli del tipo Come trasformare le proteste di Ferguson in un nuovo Movimento per i Diritti Civili (Baker 2014), La nascita del nuovo Movimento per I Diritti Civili (Demby 2014). In Dick Gregory paragona Ferguson al Movimento per i Diritti Civili (Koroma 2014) si sostiene proprio questa tesi. Per gli attivisti, invece, il richiamo alla protesta pacifica limita il potenziale delle proteste stesse, mentre i disordini e il disturbo della vita pubblica devono considerarsi un bene per la democrazia. Quando i manifestanti, che tentano di vedere riconosciuta una lunga storia di abusi istituzionali contro la comunità nera non vengono ascoltati né riconosciuti come interlocutori, allora la rivolta è l’unica tattica possibile. Uno degli esempi più espliciti dell’atteggiamento dei media si può riscontrare in una puntata di Wolf sulla CNN. Il presentatore apre la trasmissione ripetendo la parola “pace”. Nel giro di pochi secondi introduce come ospite in studio un attivista di Black Lives Matter. Capiamo meglio il senso delle parole iniziali del conduttore quando, invece di iniziare l’intervista con una domanda, parte con una richiesta di scuse all’America. Mentre l’attivista cerca di spiegare le ragioni della violenza, il presentatore insiste affinché dichiari che la non violenza è l’unica forma di protesta accettabile: “Voglio solo sentirti dire che ci dovrebbe essere una protesta pacifica, non violenta, nella tradizione di Martin Luther King”. La tesi dell’anchorman è che la protesta pacifica sia l’unico modo per la comunità nera di esprimere la propria rabbia come risposta ad anni di violenze e privazione dei diritti civili. Fox News non è da meno. In una puntata di The Kelly File, l’ospite della puntata, Joe Hicks, viene definito “leader del Movimento”, una definizione che gli conferisce la credibilità necessaria a commentare le manifestazioni da una posizione di “esperto”; non viene menzionata, però, la sua rottura con il Movimento e la sua adesione a posizioni fortemente conservatrici. Durante la trasmissione, le ragioni dei manifestanti non sono mai espresse, mentre Hicks si lancia in un’aspra invettiva contro i giovani di Ferguson affermando che King “si stava rivoltando nella tomba”, bollando come “infantili” gli attivisti e le loro richieste: “Se vogliono delle riforme devono capire che ciò può avvenire solo all’interno di questa società”. Hicks, evidenziando una totale mancanza di comprensione delle ragioni della protesta e della violenza, ribadisce che le richieste di cambiamento del Movimento “devono avvenire all’interno di un impianto ben definito per esser considerate richieste rispettabili, come quelle del Movimento per i Diritti Civili”. Con l’aggettivo “infantili” si vuole dipingere i manifestanti come individui non in grado di comprendere ciò che stanno facendo, quando invece quei giovani molto probabilmente hanno praticato l’unica forma di protesta alla quale l’élite bianca presti attenzione.

 ELOGIO DELLA POLIZIA

Durante la cronaca delle proteste, i media hanno trasformato la presenza della polizia in una sorta di spettacolo. Un tema comune a tutte le trasmissioni è stato il conto del numero di agenti, arresti e feriti. In pratica, la cronaca degli eventi si è trasformata in una sorta di elogio della polizia – vista come portatrice di pace. Quest’atteggiamento ha permesso di giustificare, difendere e (ri)produrre la fiducia in una delle istituzioni più responsabili del protrarsi della gerarchia razziale negli USA. Sia la cronaca offerta dalla CNN sia quella di Fox News alternano la spettacolarizzazione delle proteste all’elogio della polizia. Ecco cosa è accaduto all’indomani della decisione del Gran Giurì durante la trasmissione Anderson Cooper 360. Il reporter sottolinea come i manifestanti stessero vandalizzando la città e la polizia fosse schierata, pronta a tener loro testa, proponendo un’immagine della polizia come unica speranza contro la forza distruttiva dei manifestanti. Non solo, c’è il tentativo di introdurre anche un nuovo elemento: l’identificazione delle proteste come una “guerra alla polizia”. L’idea che le proteste potessero creare un clima ostile agli agenti di polizia è stato espresso in maniera ancor più esplicita nella trasmissione The Kelly File, durante la quale si è arrivati ad affermare che le proteste erano contro quegli stessi poliziotti che l’11 Settembre si erano prodigati a salvare vite.

 

Quella descritta è una strategia narrativa mirante a negare l’esistenza del problema razziale. Se si pensa poi che lo screditamento di movimenti e organizzazioni politiche anche attraverso la collaborazione di media compiacenti era una delle tattiche utilizzate dal governo statunitense negli anni Cinquanta e Sessanta per criminalizzare il dissenso, questa strategia dà molto da riflettere. Tuttavia, se si intendessero le proteste e i momenti di conflitto sociale come indicatori di gravi problemi del sistema piuttosto che soltanto come violenza criminale, allora forse si potrebbe comprendere quanto alcune fasi storiche come quella attuale offrano la possibilità di ridefinire e ridisegnare in toto l’organizzazione sociopolitica statunitense.